Monitoraggio UE

Cambio del nome per i transgender, Corte EDU condanna l'Italia

I giudici della Corte Europea dei Diritti Umani hanno condannato l'Italia per aver impedito a una persona transessuale di modificare il suo nome maschile prima di essere sottoposta ad intervento chirurgico.

by PILP

L'11 ottobre la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato l'Italia per aver impedito a una persona transessuale (S.V.) di cambiare il suo nome in maschile prima di sottoporsi ad intervento chirurgico. Per la Corte l'Italia ha violato il diritto del ricorrente al rispetto della vita privata come previsto dall'articolo 8 della Convenzione Europea sui Diritti Umani (S.V. v. Italy (application no. 55216/08).

Il ricorrente non ha potuto cambiare il nome per motivi amministrativi

Ai sensi dell'articolo 41, la Corte ha ritenuto che la constatazione di una violazione costituisse di per sé sufficiente equa soddisfazione per il danno non patrimoniale subito da S.V. Ha anche stabilito che l'Italia dovrà pagare al richiedente 2.500 euro per le spese sostenute.

Il caso riguarda il rifiuto delle autorità italiane di autorizzare una persona transessuale dall'aspetto femminile a cambiare il suo nome maschile, sulla base del fatto che non era stata ancora emessa alcuna sentenza che confermasse la riassegnazione del genere.

Nel mese di maggio 2001 il Tribunale di Roma aveva autorizzato S.V. a sottoporsi ad un'operazione chirurgica per il cambiamento del sesso.

Tuttavia, ai sensi della legge in vigore all'epoca, non avrebbe potuto cambiare il suo nome finché un tribunale non avesse confermato che l'operazione chirurgica era stata realizzata e non avesse emesso una sentenza sulla sua identità di genere, cosa che ha fatto il 10 ottobre 2003.

Lo Stato non ha garantito il diritto al rispetto della vita privata

La Corte ha ritenuto che la questione rientrasse appieno nell'ambito del diritto al rispetto della vita privata. Ha poi stabilito che l'impossibilità di S.V. di ottenere una modifica del nome per un periodo di due anni e mezzo, sulla base del fatto che il processo di cambiamento del sesso non era stato completato, equivale al mancato rispetto da parte dello stato del suo obbligo a garantire il diritto del ricorrente al rispetto della vita privata.

A parere della Corte, la natura rigida della procedura giudiziaria per il riconoscimento dell'identità di genere delle persone transessuali, in vigore all'epoca, avrebbe costretto S.V., le cui sembianze fisiche e l'identità sociale da tempo erano femminili, in una posizione ambigua per un periodo di tempo irragionevole. Questo ha determinato la possibilità di generare senso di vulnerabilità, umiliazione e ansia.

Infine, la Corte ha osservato che la legge è stata modificata nel 2011, con il risultato che da allora non è più necessaria una seconda sentenza del tribunale e la modifica della registrazione dello stato civile avrebbe potuto essere disposta dal giudice nella sentenza che autorizza l'operazione di cambiamento del sesso.


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