Proteste e rivolte nelle carceri
Fra domenica 8 maggio e il giorno seguente sono esplose diverse proteste nelle carceri italiane che hanno conosciuto differenti livelli di tensione e di gravità. In alcuni casi i detenuti hanno battuto sulle sbarre delle loro celle, bruciato i materassi, sono usciti dalle sezioni e sui tetti, in altri casi sono riusciti perfino a evadere. Il 12 marzo le autorità hanno confermato il decesso di quattordici detenuti, la maggior parte di loro morti durante o a seguito di una rivolta avvenuta nell'istituto penitenziario di Modena, dove i detenuti hanno fatto irruzione nell'infermeria e hanno assunto un’overdose di farmaci usati per il trattamento delle dipendenze. Rivolte o proteste sono avvenute in più di 40 carceri di tutta Italia, tra cui gli istituti penitenziari di Napoli (Poggioreale), Frosinone, Salerno, Ancona, Foggia, Milano (San Vittore), Roma (Rebibbia), Palermo (Ucciardone) e Pavia. Alla fine di lunedì la situazione si è calmata in molte carceri anche grazie alla mediazione delle autorità civili.
Non sembra esserci un’unica ragione dietro le proteste. Si tratta infatti di un insieme di fattori e situazioni pregresse che in un momento di tensione come questo si sono manifestate in tutta la loro gravità.
Il sovraffollamento
Il sovraffollamento del sistema penitenziario italiano è un problema cronico da anni. Alla fine di febbraio 2020 le carceri ospitavano 61.230 detenuti a fronte di 50.931 posti disponibili, con un tasso di affollamento del 120%, che Antigone ha stimato in realtà del 130%. In termini pratici, questo significa aggiungere uno o due letti in molte celle, significa condividere spazi esigui e ridistribuire le già insufficienti attività ricreative e lavorative su un numero maggiore di persone. A questa situazione già di per sé molto critica, si sono aggiunte ulteriori limitazioni imposte per contenere la diffusione del Coronavirus, che hanno portato allo scoppio delle rivolte.
Ulteriori limitazioni dovute al Coronavirus
Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nelle ultime settimane ha emanato alcune circolari interne nel tentativo di impedire la diffusione del Covid-19. Il pericolo di un contagio in un istituto penitenziario risulta evidente: il sovraffollamento rende praticamente impossibile la separazione dei detenuti e quindi il contenimento dell’epidemia.
Dovevano essere adottate delle misure per evitare l’ingresso del virus negli istituti. In alcune carceri, i colloqui e le attività sono stati limitati e all'ingresso delle carceri sono state disposte le attrezzature per il triage dei visitatori. D'altra parte, altri istituti hanno deciso di sospendere completamente tutte le attività e i colloqui nonostante si trovassero lontani dai focolai di Coronavirus. Questo ha causato disordini in una popolazione detenuta già ansiosa e ammassata in spazi molto limitati. Inoltre ha causato ansia tra le famiglie, che si sono trovate nell'incertezza riguardo la possibilità di svolgere i colloqui e riuscivano ad ottenere quest’informazione soltanto chiamando gli istituti penitenziari.
Infine, l’8 marzo il Consiglio dei Ministri ha ordinato la sospensione dei colloqui con i familiari e di tutte le attività educative in tutto il paese e indicato a tutti gli istituti di pena di aumentare l’accesso alle telefonate e video-chiamate per i reclusi, in modo da ridurre il loro isolamento in un momento difficile. Non tutti gli istituti si sono prontamente adeguati a questi cambiamenti e da qui sono scaturite le proteste e rivolte.
Proposte per alleviare il sovraffollamento nelle carceri
Nei giorni scorsi, Antigone, insieme ad Anpi, Arci, Cgil e Gruppo Abele ha elaborato delle proposte per ridurre il numero dei detenuti, per favorire i contatti con l’esterno, per la prevenzione del contagio e per sostenere lo staff penitenziario.
Le proposte per ridurre il numero dei detenuti includono l’estensione dell’affidamento in prova e detenzione domiciliare ai detenuti con problemi sanitari, la detenzione domiciliare per i semiliberi in modo che non debbano tornare in istituto la sera, l’estensione della detenzione domiciliare ai condannati per pene detentive anche residue fino a trentasei mesi. Queste misure permetterebbero di ridurre drasticamente il numero di persone detenute e aiuterebbero a salvaguardare la loro salute come quella degli operatori penitenziari.
Un cauto passo avanti con risultati probabilmente insufficienti
Il 16 marzo il governo ha emanato il primo decreto per affrontare l’emergenza carceraria. Esso contiene norme che cambiano le regole di accesso alla detenzione domiciliare. Secondo le previsioni di chi ha proposto il provvedimento nelle prossime settimane dovrebbero uscire due-tre mila persone, sempre che la magistratura di sorveglianza interpreti le norme in modo estensivo. È chiaro che questo non basta. È necessario liberare varie migliaia di posti letto allo scopo di avere celle singole a disposizione per gli eventuali detenuti che risultano positivi al virus. Inoltre, è urgente mandare a casa o in luoghi di cura, persone che presentano una particolare vulnerabilità per l’età o le patologie pregresse, in quanto la contrazione del virus in carcere potrebbe avere conseguenze drammatiche.
L’emergenza coronavirus non si può ritenere risolta con queste misure. È necessario liberare più posti nelle carceri e migliorare la qualità socio-sanitaria della vita interna.