L'Italia ha introdotto nel 1988 una legge che incentivava l'impresa agricola nelle aree meno sviluppate del paese introducendo sgravi fiscali per le aziende. Gli sgravi consentivano alle imprese di tagliare la metà dei contributi previdenziali che erano tenute a pagare per i loro dipendenti. L'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), autorità deputata al pagamento delle prestazioni, ha in seguito adottato un'interpretazione della legge che considerava questi fondi come alternativi, anziché cumulativi.
Azione legale e legge retroattiva
Quattro imprese italiane, che avevano utilizzato gli sgravi fiscali, hanno presentato delle azioni legali contro l'interpretazione della legge fornita dall'INPS, sostenendo che i benefici dovessero essere applicati in maniera cumulativa. Hanno chiesto quindi un rimborso pari all'ammontare che avrebbero dovuto ricevere secondo tale interpretazione. I tribunali italiani di primo e secondo grado hanno avallato la loro tesi.
Nel 2003, prima la sentenza di primo grado ma prima che la corte d'appello decidesse sul caso, l'Italia approvava la legge n. 326, che ha chiarito che gli sgravi non possono essere applicati cumulativamente. A seguito dell'approvazione della legge, l'INPS ha fatto appello alla Corte di Cassazione italiana, che ha ribaltato le precedenti decisioni, in applicazione della legge n. 326. La sentenza 2007 della Corte di Cassazione ha deciso che il legislatore può emanare leggi retroattive, a condizione che la retroattività sia ragionevole e giustificata.
La violazione del diritto ad un giusto processo
Le aziende in seguito portarono il caso alla Corte Europea dei Diritti Umani, accusando l'Italia di violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione sui Diritti Umani (il diritto ad un giusto processo) per via dell'introduzione di una legge retroattiva durante lo svolgimento di una causa, legge stata poi usata per determinare il risultato della stessa. Le aziende hanno sostenuto inoltre che la legge così modificata intaccasse le loro proprietà poiché impediva loro retroattivamente di richiedere i fondi trattenuti dall'INPS.
Nella sentenza sul caso Azienda Agricola Silverfunghi S.A.S. et. al. v. Italia, del 24 luglio 2014, la Corte ha riconosciuto la violazione dell'articolo 6. Anche assumendo che la nuova legge fosse necessaria a chiarire le incertezze legali esistenti, le circostanze del caso, specialmente l'interesse pubblico associato alla sua implementazione, non erano più rilevanti del danno di una legge retroattiva. La CEDU non ha riscontrato l'esistenza di un interesse pubblico tale da giustificare la sua applicazione retroattiva.
"Ampio margine di valutazione"
Nel valutare la richiesta delle aziende di violazione dei diritti alla proprietà, la CEDU ha stabilito che tutte le leggi fiscali devono mantenere un giusto bilanciamento tra interessi fiscali dello stato e protezione dei diritti individuali. La Corte ha affermato che agli stati dovrebbe essere garantito un "ampio margine di valutazione" nel determinare le politiche fiscali e nello stabilire il bilanciamento tra politiche sociali ed economiche. In ragione di questo, la decisione dell'Italia che la legge vada applicata alternativamente era legale, poiché intendeva ridurre la spesa pubblica, che pesa sui contribuenti.
Questo giudizio dimostra l'esitazione della Corte ad estendere alle società i diritti che spettano agli individui secondo la Convenzione. La decisione della Corte che i diritti di proprietà di un'azienda non fossero stati violati è stata presa in applicazione del principio del margine di valutazione, secondo cui la Corte riconosce che la Convenzione sarà interpretata diversamente dai vari stati membri. Occorre anche notare che questo caso è in linea con la tendenza della CEDU ad affermare la tutela delle imposte pubbliche da parte della Convenzione.